La Colpa

Forse non è il mondo ad essere sbagliato. Forse sono io che non capisco. C’è qualcosa che mi rende diverso dagli altri. Più tempo passa però più quel qualcosa diventa una maledizione.

Certe volete vorrei essere come le altre persone. Essere qualcuno che sa perfettamente come funziona il mondo. Invece ogni volta mi ritrovo qui, su questa sedia di legno, solo e al buio. Penso. Mi domando: ma come fanno loro? E ogni volta non ho una risposta. Resto qui, seduto, apatico, in silenzio. Non faccio nulla. Alla fine non penso neanche più di tanto. I pensieri corrono veloci, mi attraversano la mente in meno di qualche secondo. Il resto del tempo resto fermo. Sono io da solo coi miei demoni. Demoni che io stesso ho creato e che non riesco a sconfiggere.

E la colpa? È solo mia la colpa. È inutile che continuo a dire che è il mondo che non va, che sono gli altri a non capire, è tutto falso. Il problema sono io.Anni fa dissi che le mie crisi erano finite, che ormai mi ero lasciato tutto alle spalle. Adesso sto peggio di allora. Non ho fatto progressi, forse sono regredito. Volevo dare un senso a quello che facevo ogni giorno. Ho finito col perdere me stesso e quelli che sarebbero potuti essere degli anni fantastici.

Forse mi è servito. Adesso so dove ho sbagliato. Posso cambiare, lo sto già facendo. Ma mi sembra di girare attorno al problema. E alla fine sono ancora seduto qui, più confuso di prima. C’è stato un tempo dove anche nei momenti più bui sentivo che esisteva una via d’uscita. Oggi guardo quelle rovine che sono i miei ultimi anni di vita e capisco che anche quella certezza  è svanita.

È mia la colpa. Sono solo un frustrato che scarica sul mondo le proprie responsabilità. Lo ammetto. Ma continuo a non trovare una strada. Questo mea culpa è fine a sé stesso. Non ho ottenuto nulla da questa riflessione. Solo un’immagine patetica della mia autocommiserazione.

Non so, forse spero ancora che qualcuno venga a consolarmi. Forse dentro di me sono ancora un ragazzino immaturo che cerca qualcuno a cui aggrapparsi.

Non voglio pietà. Non voglio comprensione. Non so neanche io cosa voglio. Perché scrivo queste cose. Perché lascio che qualcuno le legga. Non ottengo nulla da tutto ciò, eppure continuo a farlo. Ho ventidue anni e mi sento come un vecchio centenario che si guarda indietro e si lascia travolgere dai rimpianti.

La cosa peggiore è che mi resta ancora tanto da vivere. Potrei distruggere i miei prossimi anni come ho fatto con questi appena trascorsi. Sembra che l’unica certezza nella mia vita sia questa maledetta sedia…

Addio

Il vento è umido, freddo. Gli bagna il viso e l’impermeabile scuro. Le nuvole in cielo sono scure, cariche di pioggia. Il loro grigio si mischia col verde e con l’ocra della brughiera. In lontananza un tordo fa sentire il suo cinguettio acuto. Un torrente scorre, poco più a valle, e l’acqua leviga a poco a poco i ciottoli sul fondo. Non è un torrente impetuoso: il suo è uno scrosciare leggero, appena udibile da quella distanza.

L’uomo non ha fretta di arrivare a destinazione. Senza seguire alcun sentiero, cammina a passi leggeri nella natura selvaggia. Si guarda intorno, si ferma in silenzio, si poggia a una roccia, ammira ciò che lo circonda. Osserva il torrente in lontananza, ascolta il cinguettio del tordo, annusa l’aria umida. La cima delle montagne è coperta dal velo grigio delle nuvole. Stringe il cappotto, ne assapora il calore. In quella regione dove la magia del mondo non si è ancora spenta si sente quasi fuori posto. Non vuole distruggere quell’armonia con la sua presenza.

Sa che non resterà lì per sempre. Sa che dovrà camminare oltre quelle montagne, fino alle rive dell’Oceano, dove una barca di legno bianco lo porterà lontano. È triste per questo, ma sa che andarsene è l’unico modo per preservare quella magia.

Nulla dura per sempre. Sarà la sua partenza a dare valore al tempo trascorso in quella regione dimenticata. Si alza, guarda un’ultima volta il torrente a valle che scorre. Con la speranza di rivederla ancora una volta dà un ultimo addio alla brughiera e si incammina verso le montagne, accompagnato dal vento umido e freddo e dal cinguettio del tordo in lontananza.

L’Esiliato

Silenzio. In ogni luogo, in ogni momento. Solamente silenzio. Silenzio e disperazione. Silenzio e solitudine.

Freddo. Qualcosa che il mio corpo immortale non avrebbe mai più provato, ma di cui era rimasto un lontanissimo ricordo sbiadito. Qualcosa che però qualunque essere vivente avrebbe sentito.

Buio. Stelle. La gigantesca luna scura che troneggia nel cielo. Troppo lontano il Sole. Un puntino, a malapena distinguibile dal resto, in lontananza.

Ecco cos’è l’esilio. Ecco la notte eterna che ti accompagnava giorno dopo giorno, fin quando non avresti perso la cognizione del tempo. La solitudine, la consapevolezza di essere rimasto solo, a milioni di chilometri da qualunque altro corpo celeste. Non ti avrebbero mai trovato. Avrebbero dimenticato il tuo nome, il tuo volto, la tua voce.

Cosa puoi essere tu se nessuno sa che esisti? Perché vivere? Camminare, giorno dopo giorno, su quel minuscolo pianeta sempre uguale, senza provare stanchezza, fame, senza sentire l’aria sulla tua pelle. Un corpo robotico non è vita. La mente abbandonata a sé stessa non è vita, è tortura.

Pensieri. Troppi pensieri. Pericolosi. Mi uccidono a poco a poco. Non ho niente con cui fermarli, c’è troppo silenzio, troppo troppo silenzio. Voglio morire, voglio che tutto finisca, voglio smettere di pensare ma i pensieri accelerano, si accavallano, non ti danno tregua.

Basta! Perché non vi fermate? Perché continuare? Non voglio ascoltarvi. Non voglio, non voglio. Piango. No, non posso. Il mio corpo non produce lacrime. Ma voglio. Devo sfogarmi, ne ho bisogno!

Mi butto a terra. Clang! Metallo contro roccia. Ecco l’unico rumore che si riesce a creare in questo inferno di posto!

Tachicardia? No, non ho più un cuore. Perché però continuo a sentirmi come se ce l’avessi? Convulsioni. Vorrei avercele, ma i miei pezzi sono rigidi.

Voglio la fine, voglio la morte, perché non arrivi? Perché non si brucia qualche circuito, si rompe qualche cavo, lasciando così spegnere la mia mente?

Urlo. Di rabbia, di disperazione, di angoscia. Fiatone? No, niente più fiatone con i corpi robitici. Puoi correre, ma anche dopo dodici ore di corsa sarà come essere appena partiti. Niente stanchezza, niente sfogo. La rabbia ti rimane dentro.

Non è finita, non ancora. Raccolgo una roccia dal terreno. Me la tiro sulla testa. Niente. Rumore. Nessun dolore. Nessuno stordimento. Più forte. Più forte, più forte e più forte! La roccia si rompe. Questi corpi sono veramente indistruttibili.

Scaglio lontano i rimasugli di pietra che sono rimasti nelle mie mani. Un burrone. Voglio un burrone, un burrone alto e pieno di rocce appuntite sul fondo. Corro. L’avevo visto, ieri. O forse l’altroieri. Non so. Non ho idea di come misurare il tempo qui. Ma corro. Veloce, più di quanto qualunque essere umano sia in grado. Eccolo finalmente! Più alto di quanto ricordassi. Non aspetto, mi butto. Passano i secondi, uno, due… terra!

Il metallo fa un brutto rumore, stride, raschia, sbatte, ma resta integro. Sono ancora vivo.

Non mi alzo. Non ancora. Più tardi. Ora lasciami qui. Voglio restare ancora un po’ così, immobile, a terra.

In un buio pianeta ai confini dell’universo capisco che esistono punizioni ben peggiori della morte.

La Via dei Monti

Society, you’re a crazy breed
I hope you’re not lonely without me

Eddie Vedder – Society

 

Le vedi le montagne laggiù, all’orizzonte? È lì che sto andando. Nella mia sacca ho poche cose, ma quelle mi bastano: il bisogno sfrenato di possedere non esiste su quelle montagne.

Sto lasciando la valle finalmente. Ho vissuto in questo posto troppo a lungo. La mia vita è diventata mediocre come quelle di tutti gli altri: uomini che si sono chiusi in loro stessi, tronfi della loro presunta civiltà, che hanno dimenticato il loro legame profondo con la magia naturale e ora fanno finta che non sia mai esistito. Io non sono come loro.

Posso aver passato la mia vita come tutti gli altri, ma il mio spirito non appartiene alle città. Ci ho messo così tanto a capirlo e ora mi sembra una cosa scontata. La mia anima appartiene a quelle cime imbiancate, ai loro boschi e ai loro torrenti. Tenetevi la cività voi, io non ci faccio niente.

La Via dei Monti non è mai stata tracciata. Nessuno ha mai visto in quelle montagne più di un paesaggio lontano, privo di qualunque interesse. Dovrò trovarla da me, ma questo non mi spaventa. Camminerò oltre i campi coltivati ed i parchi ben curati, arriverò là dove la natura cresce selvaggia, e lì traccerò la mia strada.

È strano, ma sembra che per la prima volta la mia vita abbia un senso. Anche se le montagne sono lontane e forse irraggiungibili, anche se la strada è irta di pericoli, ho finalmente capito cos’è che voglio veramente. Addio vite mediocri, addio routine giornaliera, sempre uguale a sé stessa, vado dove nessun uomo è mai stato prima d’ora, rompo tutti gli schemi che mi avete sempre imposto, faccio tutto ciò che voi non fareste mai e per la prima volta mostrerò il vero me stesso, non quel fantasma inespressivo che ho ingenuamente creato per compiacere voi.

Vi lascio quindi, con la speranza di non rivedervi più e il desiderio di andare sempre più lontano, senza voltarmi. Le montagne sono distanti, ma non ho fretta di arrivare. Non è solo la meta che conta dopotutto.

Addio.

Il viaggio del vecchio cavaliere

La strada sterrata si insinua tra due grossi monti, due pareti di roccia ripide e spioventi. Il vecchio cavaliere cammina lì in mezzo, in groppa al suo vecchio mulo. È invecchiato rispetto a quando si è messo in viaggio: la barba, un tempo perfetta, è bianca e incolta, i capelli sono in gran parte caduti, e quelli rimasti scendono disordinati sulle spalle. Perfino il volto, un tempo uno dei più belli del regno, è cadente e solcato da rughe. Il suo sorriso è sparito da tempo, sostituito da un’espressione stanca e rassegnata.

Una dama gli disse di partire, molti anni prima:

«Trova il drago che uccise mio padre, e portami la sua testa. Solo allora ti darò la mia mano.» così gli aveva detto, una sera, nei giardini della corte di Re Artù. E lui si era messo in viaggio, la mattina dopo, sul suo purosangue bianco, verso le terre selvagge dove si dicesse albergassero i draghi.

Il cavaliere non è più quello di un tempo, si vede subito. Sui suoi occhi sono dipinte le storie che non basterebbe una vita a raccontarle: storie di dolore soprattutto. Il mondo l’ha provato nei milleduecento anni della sua ricerca. Lui continua a viaggiare però. Quando il suo cavallo è morto nelle Paludi della Follia ha preso con sé quel mulo, e sa già che quando anche il mulo lo abbandonerà continuerà a piedi, perché è solo così che può andare la sua storia.

La dama? Chissà se è ancora viva. Il cavaliere ormai quasi non ne ricorda più nemmeno il volto o la voce. Il profondo amore che l’aveva spinto ad intraprendere quell’impresa si è appassito, soffocato dagli anni. Cos’è rimasto di lui ormai? Non sa rispondere a questa domanda. Se qualcuno gli chiederà chi sia lui risponderà dicendo di essere un vecchio in groppa a un mulo. Perfino il titolo di cavaliere ormai ha perso di valore.

Il regno di Artù è finito. Glielo ha detto un contadino, anni prima. Suo figlio Mordred l’ha ucciso. Camelot è abbandonata e in rovina. Lui sarebbe dovuto essere lì, affianco al suo Re quando questi ne aveva più bisogno, ma la sua ricerca l’ha condotto troppo lontano, dove neanche il più veloce e audace dei corvi messaggeri poteva arrivare. Non smetterà mai di rimproverarsi per questo: venire meno ai propri doveri di cavaliere è una colpa imperdonabile.

Il vecchio mulo rallenta, non ce la fa più a camminare. Il cavaliere scende e lo lascia riposare. Si siede su una roccia, lo osserva. Anche quel mulo è invecchiato: gli occhi sono scavati, la dentatura rovinata, è talmente magro che può distinguere il profilo delle costole sotto il manto grigio. Si muove alla ricerca di qualcosa da poter brucare, ma la terra è arida da quelle parti. Solo roccia, pochissime piante. L’animale riesce comunque a trovare qualche radice con cui saziarsi.

Il cavaliere prende una sacca dalla sella, ne tira fuori un po’ di carne secca e la mangia in silenzio. Sta ancora osservando il mulo, ma senza un motivo preciso: in questo momento la sua testa è altrove, a cercare un’immagine vivida della dama nella nebbia dei ricordi. Ripensa al suo passato: una vita consacrata alla ricerca, mosso dalla speranza di un amore che adesso probabilmente non potrà più essere ricambiato. Si è chiesto più volte perché continuare a viaggiare. Non ha una risposta il cavaliere, per quanto la cerchi proprio non riesce a trovarla. Lui viaggia perché adesso solo quello sa fare, e non è in grado di immaginarsi una vita che non sia alla ricerca del drago. Chissà come sarebbe stata quella stessa vita se non avesse accettato l’impresa. Sarebbe rimasto a Camelot, avrebbe combattuto per il suo Re e sarebbe morto con onore al suo fianco. Magari prima di ciò avrebbe trovato un’altra dama a cui donare il proprio cuore, e avrebbe avuto dei figli che avrebbero portato avanti il suo nobile nome. Tutti pensieri ora priva di senso: la sua vita ha preso un’altra strada, lo sa bene, e non la può più cambiare.

Così rimonta sul vecchio mulo e si rimette in viaggio il vecchio cavaliere. Se mai lo vedrete viaggiare piano lungo la via sterrata porgetegli il dovuto rispetto, e se la conoscete indicategli la via verso la tana del drago, così che la sua ricerca abbia fine e la sua anima trovi finalmente pace.

FINE

Un crimine chiamato Scrittura

Quando inizi a scrivere sei come un bambino davanti ad un mondo tutto nuovo. Osservi quel foglio bianco e ne hai un po’ paura, giocherelli un po’ con la penna per scaricare la tensione e speri di essere all’altezza di quello che vuoi raccontare. È come se la pagina bianca ti sfidasse: ti sta dicendo “Avanti, usami, vediamo di cosa sei capace” e tu la guardi ansioso, senza avere ancora il coraggio di poggiarci sopra la penna. Magari nella tua testa l’idea funziona, ti sembra talmente geniale che ti stupisci di averla pensata, però hai paura: se la tua scrittura non fosse all’altezza? Sei disposto a rovinare una buona idea con una prosa mediocre e banale?

Scrivere significa commettere un crimine. Significa strappare con forza quell’idea all’Iperuranio ed ingabbiarla in quelle macchie d’inchiostro che chiamiamo parole. Finché l’idea resta tale ha un potere immenso: può essere qualunque cosa, ognuno di noi può prenderla e farla crescere in qualunque direzione. Un’idea non ha limiti, purché sia un’idea.
Quando scrivi privi l’idea di questo potere. Poteva essere qualunque cosa, ma tu l’hai ingabbiata. Adesso sarà solo ciò che tu l’hai resa con la tua penna. E non importa se l’hai fatto per motivi frivoli o per ragioni profonde, il risultato non cambia. Perciò fai tesoro di quel briciolo di umanità dentro di te che piange per quel che ha appena fatto, perché solo quello ti farà capire che non si scrive a cuor leggero, non si scrive per piacere agli altri, né si scrive per i soldi.

Quand’è allora che vale la pena scrivere? Quando la tua scrittura invece di ingabbiare l’idea ne esalta le forme, portandola in una dimensione che l’intelletto puro non sarebbe in grado di raggiungere. L’idea diventa un fiume in piena, si evolve in una direzione che non avresti mai immaginato, e ti prende per mano per portarti lungo una strada sconosciuta e piena di misteri e meraviglie. Corre l’idea, più di quanto la tua mano sarà mai in grado di fare, ma ogni tanto si gira e ti aspetta sorridente, fin quando non arrivi, poi ricomincia a correre.

Quando posi la penna ti senti più vecchio. Scrivere non significa solo esternare quello che ci teniamo dentro. Spesso neanche lo sappiamo cosa c’è dentro di noi. È la scrittura che ce lo fa capire. Scrivere è un po’ come parlare ad un vecchio saggio, che ti fa crescere facendoti scoprire parti di te che non conoscevi. La scrittura non è mai fine a se stessa: ogni parola buttata giù su quel foglio di carta significa crescere, abbandonare il nido ed esplorare il mondo. Gli anni potranno insegnarti come addomesticare la tua scrittura, levigarla fino a quando non sarà perfettamente funzionale all’esaltazione dell’idea, ma mai e poi mai ti potranno impedire di imparare da ciò che scrivi. Probabilmente la persona che conosciamo meno di tutti è noi stessi, e fin quando continueremo a scrivere scopriremo mano a mano sempre più sfaccettature di quello che siamo e di quel che vogliamo.

La luce in fondo al tunnel è un treno

Credo che la metafora del tunnel si sia diffusa così tanto tra le persone per la sua capacità di dare forma ad uno stato d’animo che noi stessi, spesso, non comprendiamo appieno. Lo potremmo descrivere in vari modi, ma ci sembra che invece di esternarlo lo stiamo banalizzando e semplificando. Nella nostra mente invece l’immagine del tunnel è perfetta: cos’è la vita se non un tunnel buio e sudicio in cui non troviamo la strada? Ci muoviamo coraggiosi, perché non ci accontentiamo dell’oscurità, ma più camminiamo più ci addentriamo nella galleria, perdendoci.

Poi a un certo punto la vediamo: la luce. Debolissima, lontana, sembra che stia per spegnersi da un momento all’altro. Sentiamo quel bisogno irrefrenabile di averla. Corriamo, sempre più veloci, sfidando i nostri limiti, cerchiamo di esprimere tutti noi stessi e anche di più, perché l’ordinario non ci basta, noi vogliamo l’eccezionale! E corriamo, corriamo, corriamo. Il nostro cuore canta, l’eccitazione per quel che stiamo creando è alle stelle, ci commuoviamo, perché sentiamo che quella luce è in realtà noi stesso nella nostra forma più pura, pulita dai vizi e dalla sporcizia del mondo.

Talvolta l’entusiasmo non dura. Talvolta corriamo, corriamo, ma quella luce fioca sembra irraggiungibile, distante, e allora ci fermiamo a pensare. Ma siamo sicuri che quella luce è veramente ciò che crediamo? Forse è un miraggio, ce la stiamo immaginando. O forse esiste, ma è al di là della nostra portata, irraggiungibile. Noi la cerchiamo, la rincorriamo, quando magari stiamo solo consumando la nostra esistenza inutilmente. E alla fine la nostra tenacia viene schiacciata dai dubbi. Ci fermiamo, imprechiamo contro noi stessi, sentiamo il vuoto dentro di noi di quando non abbiamo uno scopo, un qualcosa da raggiungere, e abbandoniamo la luce. Tornando a brancolare nel buio, lasciando che l’oscurità ci soffochi a poco a poco fingendo di cullarci.

Altre volte quella luce semplicemente sparisce. Smettiamo di vederla, senza un motivo apparente. Dentro di noi è peggio di una pugnalata al petto. Non vogliamo crederci: cerchiamo di ritrovarla, ci guardiamo intorno freneticamente, abbiamo bisogno di ritrovarla. Lei però non compare, ci ha lasciati soli con la nostra disperazione. Piangiamo, ci lasciamo andare, sentiamo il dolore prendere possessso di noi. È un pianto violento il nostro, abbiamo perso tutto, il fato ci sta sbeffeggiando, ci lascia in vita anche se non abbiamo nulla per cui valga la pena vivere. Di nuovo soli, al buio, sempre più deboli, ci gettiamo nuovamente tra le braccia dell’oscurità, cercando la consolazione nell’oblio.

C’è un ultimo caso da considerare. Ci sono delle volte, rarissime, dove quella luce la possiamo raggiungere. È il coronamento della nostra fatica, la prova che i nostri sbagli, le nostre sofferenze, la nostra ricerca, nulla di questo è stato vano. Non abbiamo inseguito un miraggio, non abbiamo perso il sentiero, siamo quasi arrivati, e sembra quasi che la luce ci stia venendo incontro. È fatta, nulla può strapparci questo successo. Nulla tranne la luce stessa. Perché più ci avviciniamo più realizziamo che quella debole luce che vedevamo è diventata un treno in corsa, e noi stiamo sui binari.

L’impatto è talmente violento che neanche ce ne accorgiamo. Le ruote ci passano sopra schiacciandoci, riusciamo a sentire i singoli vagoni correre sopra il nostro addome e il nostro torace; la testa è andata fuori uso quando si è scontrata con la locomotiva. Non quantifichiamo il tempo passato lì sotto, potrebbe essere un secondo come un anno intero. La scena è troppo assurda perché possa essere studiata con uno strumento razionale come la misura. Per noi quel tempo è come se non esistesse.

Alla fine anche il treno, come tutto il resto, non è che una cosa passeggera. Restiamo soli sui binari, al buio, di nuovo. Non riusciamo a muoverci, il cervello non ragiona. Quando finalmente recuperiamo un po’ delle nostre facoltà mentali dentro di noi non c’è più nemmeno il dolore. Le emozioni sono sparite, la nostra personalità è appassita. Non ci è rimasto più nulla. Un guscio vuoto, ecco cosa siamo. Ormai sconfitti, ci leviamo il cappello dinanzi al fato: la battaglia è finita, e noi abbiamo perso.

Ci rialziamo a fatica, doloranti. Le gambe ci reggono appena, non riusciamo a camminare. Ci guardiamo attorno. Niente più treno, niente più luce, niente più noi. L’oscurità è tornata a reclamare il suo regno.

La ricerca dell’Io

Non si tratta di un pensiero recente, ma finora l’ho sempre tenuto in secondo piano, forse perché non sopportavo la verità che portava con sé. Adesso però mi sento pronto ad accoglierlo, a mettere tutto in discussione e a ricominciare a scrivere la mia storia.

La scomoda verità che da sempre cerco di nascondere è che non ho una personalità forte. Penso di poter dire che non ho proprio una personalità. Se mi studiaste bene e approfonditamente vi accorgereste che la mia mente è cone un grosso calderone, dentro il quale si mescolano atteggiamenti, idee e parole di altre persone. Ci son voluti anni per compiere un lavoro del genere, ma  sono riuscito a crearmi una personalità su misura, un miscuglio di pensieri e modi di fare di persone che, chi più chi meno, hanno fatto parte della mia vita.

Finora mi andava bene così. Ero felice, o almeno lo ero nei limiti della routine quotidiana, e tanto bastava per farmi andare avanti. Ora però più vado avanti più non posso fare a meno di chiedermi chi voglio essere davvero, perché non riesco più a vivere nell’illusione di poter essere tutti e me stesso contemporaneamente.

È come se la mia vita fatta di tante piccole imitazioni si fosse avvinghiata a me come un serpente, e più io cerco di liberarmene più essa mi stritola, soffocandomi. Adesso voglio tagliare la testa al serpente, lasciarmi alle spalle la storia passata e rinascere a poco a poco come una persona nuova, autentica.

Ho paura, voglio distruggere il mio vecchio Io senza avere la minima idea di come deve essere quello nuovo. In cosa credo? Come mi rapporto con gli altri? Sono una persona irascibile, oppure una calma e pacata? Disposto a mettere in discussione le mie idee o fermo nei miei princìpi e pronto a difenderli con le unghie e con i denti da chiunque osi criticarli? Cerco il comando, il centro dell’attenzione, oppure mi tengo in disparte? Sono come Palladineve, carismatico e rivoluzionario, o come il cinico Beniamino, disilluso e coi piedi per terra?

Potrei continuare così per ore, ma penso che neanche se scrivessi ininterrottamente per un mese riuscirei ad elencare tutte le domande alle quali devo rispondere. Costruire la mia personalità sarà un viaggio lungo, non privo di ostacoli, errori, cadute, nuovi errori. Dovrò comporla come un puzzle, pezzettino dopo pezzettino, aggiungendo ogni giorno qualcosa e rimettendo in discussione tutto. Scrivere questo articolo mi ha dato il primo tassello, quello da cui inizierò a lavorare: non sono una persona superficiale, non credo nella verità a portata di mano e nelle risposte facili. Questo probabilmente complicherà ancora di più il mio lavorio, ma per una volta mi concedo di credere che sarà fatica ben spesa.